Centinaro, D’Angelo, Marota e Zamponi –
che, dando vita nel 2002 all’antologia Poetry Quartet,
anticiparono la fondazione del luogo di civiltà poetiche
«Smerilliana», – intendono ora procedere su
questa via proponendo il quartetto numero due. Il termine “quartetto”
può assumere diverse accezioni e, al riguardo, i risvolti
di copertina del primo numero precisano che il quartetto è
un sodalizio di quattro poeti che cercano «la pienezza del
senso» insieme alla musicalità. Tale precisazione
ci trasporta in contesto musicale e qui il quartetto va associato
alla musica da camera che, diversamente dal caleidoscopico sinfonismo
e dal vivace cromatismo delle partiture per grande orchestra,
predilige i toni ricercati, raffinati e piú intimi. Anche
in questo volume, come nel precedente, il verso viene elaborato
e distillato «al fuoco lento e quieto della riflessione»,
fino a che il pensiero arrivi a sedimentarsi in esso e «il
tutto si effonda in armonia». E il dolce, armonioso verso
di Enrico D’Angelo «Amor non so che sia se non poesia»
può essere assunto ad emblema di tale intento estetico
ed è un verso in cui si insinua un’eco di lontana
poesia stilnovista.
Quattro i poeti e quattro i movimenti di un quartetto che dalle
agitate e drammatiche note di Centinaro passano agli adagi talora
appassionati di D’Angelo, quindi alla consequenzialità
strutturale di Marota con la simmetrica immagine dello Spirito
che, come vento, apre e chiude il testo – tutto in fine
si dissolve lentamente con le aeree, eleganti armonie di Zamponi:
«trattengo un volo d’aria tra le dita», «le
tue tracce, leggere piú dell’aria».
Dalla Premessa di Gio Batta Bucciol
Alessandro Centinaro,
da Acque e lapilli
Donne d’acque
Dilaghi come l’acqua della pace
al liquido orizzonte del mio ignoto;
tu, lago del ricordo che si giace
nel bacino colmo del mio vuoto.
Ma quando io ripenso la tua fonte:
fluivi alle mie vene, eri alluvione
nel vortice del sangue come le onde
d’un’intima infinita inondazione.
Ora, acqua ferma, m’invadi e non hai voce,
senza piú forma se non del mio bacino;
ristagni al mio profondo, alla sua foce:
lago d’Averno, e fermo
mio destino.
Enrico D’Angelo,
da Marine (1986-2020)
da Trittico
3.
Ogni amore approdante al suo dolore
leva l’àncora salpando coi sogni.
Scintilla non avvampa questa fiamma
né scotta questa lacrima ma brilla.
Maurizio Marota, da Viaggio
d’inverno
I.
Il vento ruba la sabbia che cade
dal cavo della mia mano e disegna
nell’aria una curva scia, una sciabola.
Si cela in quella spada che non taglia
la mia vita, cosí i giorni a uno a uno
come granelli se ne vanno via.
È il tempo a soffiare in questo deserto
dal fondo dei cieli, muovendo nembi,
bianche pedine di una dama azzurra.
E le labbra spaccate come pietre
e l’arsura che serra un nodo in gola
rendono uguale il sentiero tra dune.
Dopo anni dall’alto torna la pioggia:
mi spinge al marmo a dire la parola.
Giovanni Zamponi, da Sonetti
smerillesi
I.
Piú alto sembra il cielo stamattina,
piú del nulla che vela l’occidente,
sovranità leggiadra che m’inchina
l’oriente puro; e forse è un duro niente,
riva solare di dorati inganni…
Trattengo un volo d’aria tra le dita,
misuro il firmamento dentro gli anni
con l’ebbrezza di calici di vita.
Se mi perdonerò mai questa fede
d’essere in altra via per questo fondo,
cederò il mio a uno sguardo che incede
rarefatto con l’abito del mondo.
Che sia in quell’abito un’anima – imploro
che in me si veste e che vestendo ignoro.