Risvolto di Paolo Ruffilli
La poesia di Francesco Giusti si conferma, in parte, anche a modi
che hanno a che fare con il ‘racconto’. Un racconto
che vive come intenzione poematica, nel diagramma di una storia
disegnata per tappe che sono i singoli quadri distinti l’uno
dall’altro dai titoli dei singoli componimenti. E questa poesia-racconto
però resta ancorata linguisticamente a un parlato al grado
anche alto, fatto di rimandi, di riprese, ripetizioni, accordi,
inversioni, consonanze, di ascendenza culta, frutto delle stratificazioni
di una cultura che via via si è fatta natura e che quindi
si fonde in modo essenziale con le ragioni dell’esistenza.
È la storia di un’avventura esistenziale nei suoi momenti
e tappe, il giornale di bordo di una vicenda e insieme di un’educazione
sentimentale, che scopre e vive e vede tramontare il senso di molti
progetti e di molti sogni della vita propria e altrui. La conclusione
della storia non è tuttavia la dichiarazione di un fallimento,
ma l’esperienza paradossalmente vivificante di un moto ciclico
fatto di passato che ricresce nel presente.
Pezzo ai bordi del mattino
Soglia vuota.
Come due punti della stessa
retta eterna i giorni trascorsi
ci uniscono da un capo
all’altro
e ci fanno piangere.
Quando mi sposto per bere,
nel fervente discorrere della fontana
l’accelerato respiro
di un solo cuore tra le mani
si alza
riaccende con convinzione
se stesso.
Il nostro programma preferito.
Metronotte, vetrina, bigodini
Saggiata la tenuta dell’ultima saracinesca,
strattonandola da sembrare lui il malfido,
il balordo di turno, il metronotte
allunga il passo. I faretti
nella vetrina si spengono: quel manichino
ha mosso un braccio – quello scrostato,
quello si è girato – di poco. Le ore,
acquartierate tra i prezzi, trasudano
una certa inadeguatezza. Ciglia
di plastica oscillano. Occhi di porcel-
lana catturano. Hanno – non tanto –
tempo ancora per toccarsi. E adesso
che anche il vecchio cane sciancato del fornaio
si accorge di tutto quel gran fremere nel-
la penombra appesantita dei velluti, prende
e si sposta da quest’altra parte del ponte,
e con ampie linguate veloci si passa
per bene la vistosa piaga purulenta, mentre,
su, alla finestra del primo piano
sopra l’insegna logora,
che lo schiaffo di una sola ventata
staccherebbe di sicuro,
la galassia di bigodini splende
in testa al disastro.
Finestra sul porto
Estenuato dai lunghi sogni interrotti,
lottai non poco con il chiavistello degli scuri.
Gonfie nubi indispettite, aspettavano
alla fonda in cielo; altre, a vele spiegate,
andavano; e altre ancora venivano. Sotto,
il suono vischioso della campana degli annegati,
passava alla velocità di un pesce. Le mie
furono unicamente parole in apnea, bolle d’aria
che salivano verso il sole, nascosto,
addestrava i suoi plotoni di raggi per
il decisivo scontro imminente, aggiu-
standosi sul petto i roteanti bot-
toni infuocati.
Patologia in gennaio
Ingennaiato nel mattino
ci sono io, ammalato a letto. I libri
zitti zitti, tutto in giro in alti masti,
è il paesaggio che mi è dato: hanno
strani personaggi nelle pagine,
da cui fanno capolino e, diciamolo,
mi controllano; alcuni
piú di altri giocano d’azzardo, s’avvicinano;
uno in particolare c’è, che
a intervalli regolari mi sorride
e con tanta professionalità mi tasta il polso.
Dietro le tendine ben tirate e i vetri,
espressivo, regna, il mutismo del roseto,
e timoroso, in attesa che la neve
faccia da lenzuolo questa sera: oh,
lo sento, è mutismo austero, che ristora,
quando lo decifro. Ma di me soltanto
i piedi ora vivono, nell’angolo
disadorno di uno scatto, bianchi, lisci,
duri... quasi avorio; sovrapposti
come di un Cristo alzato in croce,
e la testa arresa che li vede,
dal cuscino.
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