Premessa di Paolo
Ruffilli
Esiste una condizione psicologica di confronto consapevole con
il vuoto che assedia l’uomo e sottrae credibilità al
suo sentire, che in poesia si esprime come tentativo di restituire
alle funzioni verbali la razionalità altrimenti, nella vita,
insidiata e smarrita (“La solitudine si apprende e si conquista,
/ anche se giunge a noi / come rivelazione inaspettata / di una
sera che gioca con la pioggia”). Senza, con questo, inibire
alla parola le virtú liriche, evocative, fantastiche, anzi
concentrandole e come allineandole alla retta obliqua che attraversa
da una parte all’altra la propria personale esperienza di
vita (“Adesso / sento ancora il mio corpo pieno di banderuole
/ e lo vedo disteso / sopra generazioni di finestre antiche / mentre
la notte avanza solitaria e perfetta”). È il caso appunto
di Luis García Montero. Ma, rispetto al procedimento piú
“visionario” che caratterizza altre sue prove, qui l’autore
è andato ricomponendo ancor di piú la consistenza
materiale delle cose e degli oggetti, delle situazioni e delle persone,
proprio
contro quello spettro del vuoto con cui si misura il suo bilancio
dei cinquant’anni (“Le parole, come un tramonto / che
si confonde con la notte, / sono sabbia che cade davanti al vuoto”)
e attraverso il progressivo uso oggettivante e oggettivato dei “quadri”
che compongono la Cinquantina (“le 50 poesie che
mi lasciano più tranquillo”, per sua dichiarazione).
Muovendo da una profonda esigenza interiore di verificare con se
stesso e di comunicare agli altri la propria visione del mondo e
della vita, García Montero costruisce i suoi rigorosi quadri,
mirando a isolare i tagli, le fessure, gli scollamenti, in cui si
esprime e si dichiara il disagio personale del non-riconoscimento,
del vuoto. Ma tale disagio, sia pure dentro i dubbi ed il malessere
dell’esistente (ex-sistere è, appunto, balzare
fuori di sé), diviene condizione da cui prendere le distanze,
insieme accettandone la contraddizione (“Un realista che vive
il mondo dei sogni, / un sognatore che vuole vivere la realtà”).
E la liberazione, rituale e salvifica, compone la mappa appunto
dei “quadri” del proprio percorso poetico, la serie
di contrassegni che guidano la marcia verso la riappropriazione
nel concreto e nel dettaglio dell’esistenza in tutti i suoi
aspetti e in particolare sul fronte dell’amore, in una situazione
che prevede addirittura l’identificazione della poesia stessa
con la donna amata (“La poesia sei tu, / un taglio netto,
/ una riga sull’acqua / – se l’acqua è
la ragione dell’esistere –, / la donna che si lascia
sedurre / per tagliare la testa a un re” e, del resto, “Ci
sono anche momenti in cui lasciamo / le parole d’amore e i
silenzi / per parlar di poesia”).
Sarà che la lingua castigliana, in virtù dei poeti
che l’hanno fatta cantare, risulta sempre più “naturale”
di quella italiana nel dar voce poeticamente alle parole dell’amore.
Fatto sta che la traduzione di Emilio Coco è capace di trasferire
le virtù del castigliano nell’italiano. E la versione
italiana funziona proprio come quella spagnola. L’italiano
è potente là dove il castigliano è potente,
dolce dove il castigliano è dolce, aspro e tagliente dove
è aspro e tagliente l’originale spagnolo (“Quando
ebbi un amore, / come ogni amore disperato e dolce, / e percorsi
le strade / nelle albe del ritorno, / disgraziato e felice come
ogni amante, / entrando nei miei dubbi o uscendo dall’albergo,
/ era lì con me, / il cavaliere dell’autunno”).
Ogni stimolo esterno si fa sentimento e quel sentimento “ditta
dentro” la poesia che, con intensa emotività, intreccia
l’amore ai problemi esistenziali proiettando tutto nel mondo
esterno, dove però i sentimenti si fanno intimi e sacri come
in un santuario privato e laico. Si stabilisce ogni volta una relazione
tra la complessità dello stato sentimentale interiore e la
costruzione del testo secondo un ricco impiego di mezzi stilistici
a potenziare la parola (“quando l’amore invade le parole,
/ batte alle sue pareti, vi evidenzia / i segni di una storia personale
/ e lascia nel passato dei vocabolari / sensazioni di freddo e di
calore” e, ancora, “Se l’amore, come tutto, è
questione di parole, / avvicinarmi al tuo corpo fu creare un idioma”).
A dominare è l’immaginazione piena di metafore e di
simboli, di armonie. Con uno stile personalissimo e un linguaggio
vivido di grande libertà espressiva e metrica, Luis García
Montero tiene sotto controllo le diverse intonazioni del suo canto
di tenerezza e di sincerità, privo di inibizioni e di intellettualismo,
nutrito di esperienza più che di saggezza come deve essere
appunto nell’amore.
Nota dell’Autore
Spiego alcune cose:
Con la poesia mi succede la stessa cosa che con l’età.
Sono contento di essere vivo, ma non mi sento orgoglioso dei miei
anni. Se si conserva un minimo di coscienza critica, riesce difficile
godere della propria letteratura. Va bene scrivere, aver scritto,
mantenere l’ottimismo necessario per continuare a scrivere,
ma è quasi impossibile sentirsi orgoglioso della propria
opera. Dico che questo succede quando si conserva la coscienza critica.
Conosco, tuttavia, autori nei quali l’esaltazione del successo
o il rancore dei fallimenti hanno provocato una vanità autodistruttiva,
incapace di dubitare della genialità di qualsiasi idea o
del valore di una verbosità ridicola. Se si mantengono non
solo le scommesse, ma anche le distanze e i sospetti, risulta difficile
leggere se stesso con occhi di ammirazione, e dietro ogni verso
od ogni pagina si impongono gli occhi del correttore, l’incertezza
di ciò che si è fatto e di ciò che si poteva
aver raggiunto. Per godere della lettura sono necessari gli occhi
dell’ammirazione. Conosco anche casi in cui il lettore professionista
si ostina a non gradire il libro che ha tra le mani, sia perché
considera che il suo mestiere consista soprattutto nell’individuare
orrori, sia perché suppone che il proprio merito si basi
sulle debolezze altrui, o perché è arrivato a confondere
la dedizione alla letteratura con una guerra di guerriglie, con
odi inevitabili tra faziosi. Tra gli impegni che esige l’età,
mi sembra che uno dei piú importanti, persino piú
di quello di smettere di fumare o di bere, sia il desiderio prudente
di mantenere in vita il lettore giovanile che fummo, il ragazzo
che rimase abbagliato dalla lettura di un romanzo o di qualche poesia
e che si appassionò tanto a ciò che aveva davanti
ai suoi occhi da decidere di dedicarsi alla letteratura. Uccidere
il lettore adolescente che portiamo dentro è tanto pericoloso
quanto perdere la coscienza critica, ci allontana dalle vere dimensioni
del fatto letterario, quella complicità che deve stabilirsi
tra un autore e la persona che si appropria di lui per sognare,
amare, odiare e pensare a una doppia vita. La vera sfida consiste
nell’essere esigente, sempre piú esigente, chiedere
un buon vino, per assaporarlo non con matematica di enologo, ma
con anima di ubriaco. Un sorso forse, soltanto un sorso per non
cadere nell’alcolismo e non pagare il conto che ci presentano
gli anni. A patto che quel sorso condensi la passione di un ubriaco.
Bere se stesso è pur sempre un atto di cannibalismo, per
cui è normale che si rinunci all’ammirazione e ci si
dedichi a cercare difetti, a dire questo no e quello nemmeno. Per
fortuna ci rimane l’amore per la letteratura degli altri.
Delle incertezze che mi producono le poesie che ho scritto solo
mi consola la sicurezza di essermi dedicato a un esercizio nobile.
La poesia rappresenta per me la solitudine dell’essere umano
che rivendica la coscienza individuale in un’epoca propensa
a liquidare le coscienze individuali. La poesia rappresenta per
me la volontà dell’essere umano che non vuole una solitudine
confusa con l’isolamento, l’egoismo, l’aggressività,
e per questo cerca spazi pubblici, le poesie, per stabilire un dialogo
tra coscienze. La poesia rappresenta per me l’autocontrollo
di un essere umano che stanco di vivere di frette, di dogmi –
che sono la fretta delle idee –, di offerte di rapido consumo,
chiede il tempo necessario per diventare padrone delle sue proprie
idee, per attenuare, per mettersi dall’altro lato delle affermazioni
o delle negazioni categoriche, per decidere riguardo a ciò
che è importante e ciò che è prescindibile.
Il poeta che dedica tutto un pomeriggio a cercare una parola rappresenta
per me l’essere umano propenso a capire le ricchezze minuziose
e innumerevoli della realtà, a responsabilizzarsi delle proprie
opinioni e a trovare un modo onesto per conversare con gli altri.
Non sono cattivi tempi per la poesia. Disgraziatamente sono cattivi
tempi per la politica, per le illusioni collettive, per il futuro.
Perciò in un mondo in cui la malinconia piú grave
sorge dalla perdita del futuro, non si può dire che viviamo
cattivi tempi per la lirica. La coscienza individuale e le parole
intese come uno spazio pubblico sono oggi un bene di prima necessità.
Confesso, allora, che la sicurezza di essermi dedicato a un esercizio
nobile in tempi di barbarie mi consola dell’incertezza delle
mie poesie, a cui mi avvicino con occhi di correttore piú
che di lettore.
Adesso che compio 50 anni ho sentito la necessità di fare
un’antologia con le 50 poesie che mi lasciano piú tranquillo.
Non vi chiedo ammirazione per me stesso, ma un po’ di tranquillità
al momento di leggerle in privato o in pubblico.
Delle centinaia di poesie che ho scritto, e che sono state pubblicate
in 9 libri e qualche plaquette, scelgo queste cinquanta, cosciente
che l’incertezza facilita l’errore e che è possibile
che ogni giorno si avverta nell’alzarsi il bisogno di fare
una scelta diversa. So anche che è un capriccio limitare
o estendere l’antologia a un numero di poesie che coincida
con la mia età. Ma qualche criterio dovevo pur seguire per
calmare questi angustiati occhi di correttore che continuano ad
accompagnarmi, come contrappunto imprescindibile agli occhi adolescenti
con i quali ammiro molti altri poeti. E vi ho spiegato già
che con la poesia mi succede la stessa cosa che con l’età.
Sono contento di essere vivo ma non mi sento orgoglioso dei miei
anni. Cerco, dunque, di presentarvi qualcosa per cui non sento orgoglio,
ma neanche paura.
Qualcosa che, in ogni caso, è mio in un modo inevitabile.
Primi versi
Parlo di quegli anni onestamente infranti.
Il vento imprevedibile girava intorno al mondo
tra boschi e cacciatori.
Ma poiché i boschi stanno in ogni parte
che custodisca un dubbio, un rumore o un silenzio,
e dietro all’inseguito c’è sempre un cacciatore,
il vento compariva e scompariva
onestamente grigio in qualunque abbandono.
Per esempio nell’uomo dagli occhi blu che guarda
una città da poco bombardata.
Nel posto del bambino che aspetta un’elemosina.
Nella doccia impossibile della donna del sabato
che congeda il cliente ed apre le finestre.
Nelle spalle di quel ragazzo
percorso dal vento del mondo,
che si porta via tutto,
si porta via tutto tranne il cacciatore,
e tranne la pietà, un’ombra tacita
appresso alla bellezza, ombra che unisce
le mie ultime poesie e i primi versi.
PRIMEROS VERSOS Hablo de aquellos
años honestamente rotos. / El viento imprevisible daba la
vuelta al mundo / a través de los bosques y de los cazadores.
/ Pero como los bosques están en cualquier parte / que conserve
una duda, un rumor o un silencio, / y siempre hay cazadores detrás
del perseguido, / el viento aparecía y desaparecía
/ honestamente gris en cualquier desamparo. // Por ejemplo en el
hombre de los ojos azules / que mira una ciudad recién bombardeada.
/ En la esquina del niño que espera una limosna. / En la
ducha imposible de la mujer del sábado / que abre las ventanas
y despide al cliente. / En los hombros de aquel muchacho recorrido
/ por el viento del mundo, / que se lo lleva todo, / que todo se
lo lleva menos al cazador, // y menos la piedad, una sombra callada
/ detrás de la belleza, una sombra que junta / mis últimos
poemas y mis primeros versos.
La poesia
La poesia è inutile, solo serve
a tagliare la testa a qualche re,
o a sedurre una ragazza.
Potrebbe anche servire,
se l’acqua è la morte,
a cancellare l’acqua con un sogno.
E se il tempo le accorda la sua unica materia,
probabilmente serve da coltello,
perché è meglio un taglio netto
quando apriamo la pelle della memoria.
Con un vetro rotto,
il desiderio
fa ferite più sporche.
La poesia sei tu,
un taglio netto,
una riga sull’acqua
– se l’acqua è la ragione dell’esistere
–,
la donna che si lascia sedurre
per tagliare la testa a un re.
LA POESÍA La poesía
es inútil, sólo sirve / para cortarle la cabeza a
un rey / o para seducir a una muchacha. // Quizás sirve también,
/ si es que el agua es la muerte, / para rayar el agua con un sueño.
/ Y si el tiempo le otorga su única materia, / posiblemente
sirva de navaja, / porque es mejor un corte limpio / cuando abrimos
la piel de la memoria. / Con un cristal partido, / el deseo / hace
heridas más sucias. // La poesía eres tú, /
un corte limpio, / una raya en el agua / – si es que el agua
es razón de la existencia –, // la mujer que se deja
seducir / para cortarle la cabeza a un rey.
Poetica
Ci sono anche momenti in cui lasciamo
le parole d’amore e i silenzi
per parlar di poesia.
Tu riposi la voce nel passato
e ricordi il titolo di un libro,
la storia di qualche verso,
la notte giovanile di qualche cantautore,
l’importanza che hanno
i poeti e le bandiere nella tua vita.
Io ti parlo di virgole e maiuscole,
di immagini che abbondano o che mancano
e del bisogno di trovare un ritmo
che sostenga la storia,
come si sostengono con le mani
l’umidità e i muri di un castello di sabbia.
E ricordo ugualmente qualche verso
in notti dove virgole e maiuscole,
metafore e ritmi,
scaldarono la mia casa,
mi fecero compagnia,
mi seppero convincere
col tuo stesso potere di seduzione.
So già che altri poeti
si vestono da poeta,
vanno negli uffici del silenzio,
gestiscono le banche del fulgore,
calcolano con essenze
i saldi dei loro fondi interni,
sono fiaccola di re e di dèi
o sono lingua d’inferno.
Sarà che hanno un’anima.
Io mi accontento di avere te
e di avere coscienza.
POÉTICA Hay momentos
también en que dejamos / las palabras de amor y los silencios
/ para hablar de poesía. / Tú descansas la voz en
el pasado / y recuerdas el título de un libro, / la historia
de unos versos, / la noche juvenil de algunos cantautores, / la
importancia que tienen / poetas y banderas en tu vida. / Yo te hablo
de comas y mayúsculas, / de imágenes que sobran o
que faltan, / de la necesidad de conseguir un ritmo / que sujete
la historia, / igual que con las manos se sujetan / la humedad y
los muros de un castillo de arena. / Y recuerdo también algunos
versos / en noches donde comas y mayúsculas, / metáforas
y ritmos, / calentaron mi casa, / me dieron compañía,
/ supieron convencerme / con tu mismo poder de seducción.
// Ya sé que otros poetas / se visten de poeta, / van a las
oficinas del silencio, / administran los bancos del fulgor, / calculan
con esencias / los saldos de sus fondos interiores, / son antorcha
de reyes y de dioses / o son lengua de infierno. // Será
que tienen alma. / Yo me conformo con tenerte a ti / y con tener
conciencia.
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