Premessa di Gio Batta Bucciol
Le poesie di Michael Donhauser non amano i toni retorici ed altisonanti,
hanno il passo leggero, l’andatura calma e tranquilla e
si muovono con scioltezza, senza vincoli sintattici troppo rigidi.
Sono composizioni in cui la natura e il paesaggio si compenetrano
con l’esperienza amorosa e in cui si descrivono o evocano
cose semplici e grandi, come la felicità, il dolore, l’amore,
l’ebbrezza o la perdita di tenerezza. La primavera con i
profumi delle sue fioriture o l’autunno, carico di frutti
maturi, accompagnano la tematica amorosa di segno per lo piú
malinconico, ma vivificato dalle metafore della natura. L’amore
termina con l’addio, mentre la natura abbandona l’idillio:
nelle poetiche descrizioni di natura si rincorrono le parole che
formano il vocabolario tipico della lingua di Donhauser, come
oscillare, frusciare, sfiorare, l’ebbrezza,
il profumo, il sambuco, la veccia…,
ma il testo è anche disseminato di dissonanze rappresentate
da oggetti e da nomi della civiltà industriale, come l’asfalto,
i moderni capannoni o il maggese illuminato dalla luce al neon.
C’è una felicità tattile nell’osservare
le cose, nel circuirle, nello sfiorarle. Confessa il poeta: «Ed
erano mani i miei occhi ed era il vedere uno sfiorare…».
Infatti non solo gli occhi, la luce stessa ha mani per posarsi
sulle cose: «e come mani si posarono le luci sulle / vie
d’asfalto».
Ci parlano della perdita dell’amore e, quindi, della felicità
questi versi, eppure una consolazione li attraversa «perché
la lingua ristabilisce la felicità nel momento che la inventa,
a dispetto della perdita, con una risposta affermativa».
È cosí che può sciogliersi un canto piú
bello, come una trasognata aria d’opera, come il canto
rasserenato di Orfeo, che, pur disperato, intona il suo «che
farò senza Euridice…».
Gio Batta Bucciol
E qualcosa trabocca, e qualcosa va cadendo,
acconsente e recalcitra ancora, è la necessità
che ci piega silente, è il tempo che dimora e
spezza, un ultimo barbaglio che resta e tutto
culla e accende e si ritira poi.
Und etwas wippt, und etwas fällt und willigt
| ein und sträubt sich noch, es ist die Not, | die still uns
neigt, die Zeit, sie wohnt und | bricht, es bleibt ein letzter Schein,
der alles | wiegt, der glost, dann weicht.
Fugace resta e vorticosa cade la neve, gira,
e c’era un vino, pudica era la necessità,
e c’era una luna, che come innevata e lenta
alzava il pallido chiarore, tutto era fallito
e fluttuava leggera, la notte, che poi scese
e si spezzò come un pane.
Und flüchtig bleibt und wirbelnd fällt
der | Schnee, er treibt, es war ein Wein, war keusch | die Not,
es war ein Mond, der wie verschneit | und langsam hob den blassen
Schein, es war | vertan und wogte leicht, die Nacht, sie sank |
und brach wie Brot.
E fu sí dolce, fu un risveglio e profondo,
come velato, e lí chiaro si levò il canto,
simile era al sonno, era mattutino e come
inquieto e anzi desolato, cosí per tempo,
ancora come stordito e poi vacillò, salutò,
rimase.
Und war so süss, war ein Erwachen und tief,
| wie verhangen, da licht, da auf und stieg das | Lied, es war wie
Schlaf, war morgendlich | und wie besorgt und heillos doch, so früh,
| so wie benommen noch und wankte, grüsste, | blieb. |