Risvolto di Tommaso Ottonieri
Fa uno strano effetto di altro luogo – altro,
ovvero, da sbocciare dalle maglie fitte dello stesso,
– questa poesia autunnale di Giusti; ambientata
com’è nelle ragioni assertive (e sintassi farraginose
persino, e ad arte, a tratti) d’un ethos della parola: eppure
in risalita continua da esse – rivolta, come per baleni
appare, al liberarsi, al librarsi, delle sue ombre, e senza meno
a un’anima, piuttosto, della parola. Ingombrante e disparente,
a un tempo: al modo diafano-mobile della luce che essa, costante,
vuol significare, la inquieta e immota trasparenza di laguna,
il filo d’aria del suo lento riflesso.
In una poesia cosí tanto stanziale, in tensione sulla linea
del paesaggio cui appartiene – raggio d’autunno, strabico,
lievito algoso d’onde dal flottare fermo delle banchine,
– quel che si scruta, come da un punto statico e diffratto
(“in avaria all’orizzonte”, per dirla nel verbo
del poeta), è il cristallo solcato, affiorante, d’una
voce opaca d’acque. E la parola, allora, avvinta nel fantasma
lagunare del suo territorio (come svela delicato il racconto critico
di Annelisa Alleva), l’anima, allora, della parola, percorre
le familiari superfici inaddomesticate, a divinare in esse la
scia muta d’un passaggio. Un varco entro il cuore dell’ombra,
nell’oltremondo (oltretempo) che vigila nelle pieghe di
questo: a colmare di parole piccole il vuoto stagno dei
muri, il ritorno senz’orma da un Ade quotidiano, tutto a
sé presente, tramato di riverberi.
Cosí, stoica, l’elegia della parola rivela, nel sillabarsi
delle sue malferme tracce (che siano danza, o terremoto,
o frusta), quel che la spinge, sua regola e segreto:
“la mia finestra, ve lo dico, | respira su un cortile di
case storte | sotto il cui perimetro, come cunei, incastro | accenti
e virgole per evitare la catastrofe”.
Tornati la sera
Come, sfilata l’ombra di dosso,
nella fecondità degli affetti
nella poltrona di casa,
domestici, riprendere fiato
quando l’acidità
dei tempi corrode sera
e serratura?
Libri
di amici
andati
libere ombre ventose e amare
dimorano qui nella sera
tra le care cose rare.
In questa idea di accumulo
vive piuttosto male la luce,
sembra braccata
con quella coda di volpe lasciata
in vista a ogni porta. Soltanto lassú
vestendo le ali degli uccelli che migrano
prende di petto il tempo
agghindandosi, signora, il collo
con una collana d’ore
fuori dalle ore.
Perché non si muore
Da bravo ieri
mi sono accomodato
sulla sedia del dentista per una
dose di introspezione. Le quattro
radici pietosamente deposte
vite andate, volate via nel camposanto
di un film dell’orrore dove la fine
è un solo unico tumulo
dal quale esco
con piú aria in bocca
e un albero gemmato
tra le mani quando il nido cade
e il colombaccio torna.
La mia finestra
Mi deprime
la poesia che si fa la barba ogni mattina
dopo che la sera è andata a letto presto
con il volto impomatato. Sta
a un piano che non conosco e se la incontro
per le scale quando esce per entrare nei libri
lascia una scia di profumo che mi fa rimpiangere
l’unto di certe mani che sanno del mestiere
che fanno. La si incontra sempre piú spesso
mentre torna da qualche premio; è allora
che mi giro a cercare il mondo
di là di una staccionata di cantiere
dove il cane pulcioso ha corso
dopo aver pisciato: la mia finestra, ve lo dico,
respira su un cortile di case storte
sotto il cui perimetro, come cunei, incastro
accenti e virgole per evitare la catastrofe.
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